23 aprile 2013
una rondinina non fa primavera
Fa bel tempo da un po' di giorni, e anche se magari scendendo in strada si sente il venticello fresco che ti obbliga a chiudere il trench, quassù - sarà il sole? sarà che è mansardato? - c'è quel caldo perfetto che ti fa venire voglia e necessità di tenere aperta la finestra da quando ti svegli a quando vai a letto. I primi mesi chiudevo tutto appena calava il sole, perché quel mona di mio moroso mi aveva detto che i topi sanno arrampicarsi sui muri e girano sui tetti e sentono odore di cibo. Io, terrorizzata, ho passato tutti i mesi invernali (che qui a Parigi corrispondono a più della metà dell'anno solare) a cucinare in una stanza che mi fa da cucinasalottosaladapranzocabinaarmadiostudiobibliotecacameradaletto chiusa ermeticamente.
Risultato: ore di me sorda a causa del ventolìn (quella roba aspira-aria che c'è sopra i fornelli - sì, c'è spazio anche per quella) e ore di terrore seguite a ore di nettoyage di pareti colpite dalla mia amica muffa. Anche una valigia, già. E non è tanto levare la muffa dal tessuto, per tutto c'è Yahoo Answers, se sa. È più che altro la parte di tessuto che sta sotto la maniglia della valigia. Come la pulisci? La spazzola per i tessuti non ci passa. Ma ecco che torna finalmente utile il mio hipsterissimo spazzolino di Pantone comprato ad Amsterdam un anno e mezzo fa, con setole troppo morbide per poter pulire davvero i denti ma perfette per il sotto-maniglia ammuffito di una Roncato nera.
Bref, ora che è bello lascio sempre tutto aperto. Stanotte ho dormito con la finestra aperta, per dire. Non perché davvero lo volessi ma perché mi sono dimenticata di chiuderla. E comunque all'appello non sono presenti né topi, né ratti, né robe schifose che mi farebbero uscire di casa così come son vestita. Cioè con una t-shirt rossa dei Rumatera e i boxer neri che lui ha dimenticato qui qualche tempo fa. Ma quanto son comodi?!
Comunque, oggi è stata una delle mattine più belle, mi sono svegliata con la luce del sole sul viso e il canto degli uccellini nelle orecchie. Giuro. Nemmeno a Padova cantavano gli uccelli il mattino, invece in centro a Parigi, in mezzo ai ricchi radical chic, tra mille palazzi hausmanniani che non lasciano passare un filo d'aria, tra l'inquinamento acustico e ambientale..sì, ci sono. E non solo ci sono, pure cantano! Sembrava di essere a casa dei miei la domenica in primavera.
Insomma, dieci minuti fa c'era ancora luce. Non lucissima, quel celeste pre-notte. Quel colore bellissimo da guardare con uno spritz in mano dopo una giornata di mare. Io ero seduta sul letto a guardare una puntata di Mad Men quando l'area esterna destra del mio campo visivo (che io da anni son convintissima sia molto più sviluppata di quella dei miei normali amici umani) viene attratta da un susseguirsi di macchioline nere che si muovono. Ieri sera le vedevo sul muro alla mia sinistra, ma è perché son fotofobica. Io cercavo insetti sul muro e non ne vedevo, mi rimettevo al pc e de novo le macchioline, blocca tutto: cerca ancora. Niente, fotofobìa.
Dunque prima, ricordandomi il fastidio di ieri sera, ho lasciato perdere convinta che fossero ancora i miei occhi pazzi. Dopo qualche minuto ancora son lì 'ste macchie e inizio a pensare, sempre guardando il telefilm, e se fossero pipistrelli? e se fosse il mio vicino di casa che si è fatto coraggio e cerca di inviarmi messaggi in carta nera in simil citazione a Vincendeau? Metto pausa, alzo gli occhi e scopro che no, non era fotofobìa e che sì, era qualcosa di vero, ma non pipistrelli, né vicino.
Erano uccellini.
Ma minuscoli, tant'è che ci ho messo un po' a esser certa non fossero pipistrelli. Dalle mie esperienze georgio-bucoliche direi che sono rondinine. E dalla mia esperienza mattutina direi che mamma San Benedetto ha scelto un angolo del mio palazzo per farsi il nido e far nascere i piccoli, se no come te lo spieghi quel gran cinguettare di stamattina? Eh.
Questi piccoli cuccioli mi sa che erano ai primi voli, sbattevano le ali velocissimi, poi un po' si stancavano e smettevano per un secondo, allora iniziavano a precipitare per un metro o due e poi riprendevano con lo sbatti-ali aggressivo. Robe che se li colleghi a una dinamo la lampadina scoppia.
Mi son messa a guardarli qualche secondo, ma si avvicinavano pericolosamente alla mia finestra aperta e quindi, onde evitare spargimenti di urla e piumaggi e sai mai che altro, ho chiuso.
Son stata lì, dietro al vetro, col naso appiccicato e il fiato che un po' annebbiava, a guardarmi questi piccoli di rondine volare e poi precipitare, volare e poi precipitare. E sono lì, beata, in uno dei momenti di poesia reale della vita, che guardo questo incespicare ma poi avanzare ancora di questi cosini neri a qualche metro da me quando - come Bartolomeo Vanzetti, ma quello del film - mi ricordo che c'è un vetro tra me e loro.
E allora metto a fuoco il vetro e non l'oltrevetro.
E vedo un minuscolissimo insetto a sei zampe che cammina a due centimetri da dove fino a un secondo prima io avevo incollato il naso. Faccio un urletto, ma dentro di me. Perché da quando vivo sola sono diventata strabrava a gestire la mia schifiltosaggine. In realtà io credo di vedergli la pancia e quindi sono abbastanza sicura che sia fuori, ma non ne sono certa perché è davvero minuscolo.
Allora piano piano porto avanti il mio dito. Devo avvicinarmi fino a sfiorarlo per vedere se è dentro o no, ma non posso schiacciarlo se no poi che schifo. Il mio popastrello avanza di un millimetro al secondo ed è lì, quasi, ancora poco.
Ecco. Tocca: il vetro.
Faccio: fiuu.
E il vetro fa: spotònc.
Uno dei due rondinini si è schiantato sulla mia finestra.
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22 aprile 2013
atterrare come sempre
Da qualche settimana conosco Enrica e da qualche settimana, ogni tanto, le do una mano ad appendere i manifesti del concerto di Dente à Paris che lei organizza per il Marcovaldo, un cafè - libreria bellissimo nel Marais alto. L'altra mattina avevamo appuntamento al locale per prendere una p'tit déjeuner e iniziare a riempire Parigi di scotch con del vero caffè a darci la forza. Francesco, da dietro il banco, ci annuncia che mette la musica giusta. Lo annuncia con quell'aria orgogliosa macchiata di gioia nel sapere di provocare fastidio. Mette Ivan Graziani. Ivan Graziani. Alle 10 del mattino penso di essere al funerale di un mio amico, sento la tristezza salirmi dentro, penso a tutte le cose che non stanno andando bene.
Per cercare di sopprimere questo cancro di angoscia che nel frattempo è già arrivato alla bocca dello stomaco, decido di guardare la parete di libri. Mentre leggo i nomi e guardo i colori e penso l'ho letto, vorrei leggerlo, non lo leggerò, sento che gli altri stanno parlando di cambiare musica, ma non ascolto. La piccola libreria di Marcovaldo è bellissima. Essenziale, incompleta, ma bella. La guardo come se fosse un foglio bianco e io dovessi seguire con gli occhi un'onda disegnata con un pastello a cera da un bambino con la maglietta a righe. Inizia con la narrativa, e io parto dal basso perché c'è Calvino, poi diventa fumetto, poi in alto ci sono le guide turistiche e in un quadrato in alto a destra, ma più in basso delle guide, c'è la poesia. È proprio sulla curva che fa l'onda per scendere di nuovo. Oltre non so cosa ci sia, non ho mai guardato. Mancano pochi scaffali e potrei continuare, ma non è pigrizia, è che ogni volta che ho visto la poesia mi ci sono fermata e poi era tempo di andare.
Nell'istante in cui il mio sguardo è sceso un poco per leggere Zanzotto in nero su sfondo arancione Mondadori mi accorgo che non ho più la tempesta dentro, sono calma e mi sento quasi bene. Sento una voce che mi piace e capisco che hanno cambiato album, senza cortesia chiedo cosa sia questa cosa, chi è che sta cantando, cos'è.
- Giuliano Dottori. Viene a cantare qui stasera, ti piace?
- Non lo so, non l'ho mai sentito. Ma sento una cosa strana, sembra per me. Come hai detto che si chiama?
Ho passato il pomeriggio a informarmi su questo Giuliano Dottori, che io all'inizio ricordavo si chiamasse Giuliano Medici, mais bon. Leggo Wikipedia, lo ascolto su YouTube, lo ascolto su GrooveShark, lo cerco su Twitter, metto mipiace su Facebook. Le canzoni mi fanno impazzire, ogni tanto piango, ogni tanto sorrido, ogni tanto mi ricordo com'ero quando avevo vent'anni. Cioè cinque anni fa.
Ho sempre paura dei giovani cantautori perché spesso sono dei cazzoni. Tipo una volta ero a un concerto di Dente e gli ho urlato che è un cucciolo, un cucciolo di panna; cosa che evidentemente non è perché mi ha risposto con una brutta battuta e da quella volta non l'ho più ascoltato. Coglione.
Poco male, avevo pagato i soldi solo per sentire l'unica canzone che mi piaceva, cioè A me piace lei - lei piace a me. In genere questo gruppo di nuovo cantautorato giovine non mi fa impazzire, ecco. Invece questo Giuliano non dev'essere tanto nuovo, o tanto cantautorato, o tanto giovane, perché a me impazzire mi fa e quindi, nonostante lo studio, decido di andare al concerto la sera.
Ci metto venti minuti a scegliere come vestirmi, per poi accorgermi una volta pronta che è eccessivo e che ho sbagliato, cheppalle. Arrivo con dieci minuti di ritardo, prendo un vino che si chiama Falanghina, mi fumo una sigaretta e guardo da fuori il concerto iniziare. Marcovaldo è proprio bello. E con il gruppo che suona dietro il vetro lo è ancora di più. Un po' ascolto, un po' chiacchiero, un po' bevo. Poi parte la canzone per cui avevo pianto il pomeriggio, sussurro che è bellissima, così, per me. Ma in quel momento Giuliano si gira verso la parte di locale dove c'ero anch'io: non so cosa abbia visto lui, ma nella mia testa ha letto le mie labbra e mi ha sorriso. Ascolto la canzone sorridendo anch'io e guardando gli scaffali di poesia fermi sul foglio. Dopo un po' inizia un'altra canzone, Silenzi. Io sono sola in mezzo a sconosciuti, un po' in disparte, un po' in una stanza vuota.
Ci sono stati altri momenti bellissimi del concerto, altre canzoni bellissime, ma queste due sono qualcos'altro.
Ci sono certe canzoni che sono perfette per qualcosa di specifico nella mia vita qui. Per esempio il Pont Neuf al ritorno dall'università ha Big Jet Plane di Angus And Julia Stone, le scale di casa mia in discesa hanno Nightcall di Kavinsky, la rue Dauphine ha Controvento di Giorgio Canali. Questa sera sono rincasata in metro, scesa dal treno ho infilato le cuffie e acceso il lettore in random.
Inizia una chitarra, è un parco di Londra, poi arriva la voce e sembra proprio dietro il tuo orecchio. Salgo le scale ed esco sul Boulevard Saint Germain. Il sole è un pugnale sulla testa, per te che porti pioggia in fondo agli occhi. Ti immagini stesa su un letto e dietro di te questa voce che un po' ti abbraccia, un po' ti racconta cose all'orecchio che non ti fanno stare bene. È un abbraccio soffice l'oscurità. Non sta cantando parole, me le sta dicendo: si sente la lingua sul palato, la bocca che si apre, i denti che fermano la z. Hai creduto di essere migliore. Hai voluto fingerti peggiore. Svolto a destra e cammino sulla via di casa. È uno di quegli abbracci da cui non ti aspetti molto, in cui vuoi solo restarci dentro. E invece chi ti abbraccia ti dice cose che non vuoi ascoltare e rompe la magia bella e inventa una magia brutta, ma che ti piace.
È una tristezza da favola prima di andare a dormire.
Spingo forte il portone, finisce la musica, attraverso la corte, appoggio la mano sulla maniglia per aprire la porta a vetri dell'éscalier B, inizia la musica, la riconosco e penso che non ci credo. È una chitarra, ma felice. Ed è la stessa voce che parlava prima, ma felice. Inizio a salire le scale. Difenditi dal giorno, difenditi da te. La voce un po' scende sul pronome, forse è davvero preoccupato. Siamo seduti uno di fronte all'altro, su due sgabelli di legno da bambino. Difenditi dal tempo, difendi l'orizzonte intorno a te. È qualcuno con la camicia bianca che sa tutto il mio male. E' serio ma felice, mi spiega che tutto andrà bene, che l'abbraccio di prima lo posso dimenticare, lo devo un po' combattere.
Difenditi dal freddo, difenditi da te. E non scordarti di precipitare e di atterrare come sempre.
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20 aprile 2013
goldoni che si bucano
Un anno, nove mesi. E l'associazione al parto non è poi così guasta. In effetti Parigi per me era una di quelle cose che si è sempre voluto fare ma che quando è il momento di dire 'ok, si fa' poi non si fa mai. Tipo andare al concerto del primo maggio. E la mia domanda erasmus è un po' come un goldone che si è bucato. E' l'ultimo anno, sento la pressione psicologica della fine di questo limbo di vita. La mia migliore amica ha appena fatto domanda per partire. Io ho appena deciso di fare la tesi con un prof che in effetti si occupa di qualcosa di francese. Senza pensare, come quando sali in auto e ti ritrovi a casa dopo il tempo che serve e ti accorgi che hai guidato senza essere mentalmente presente, come se il corpo avesse un cervello a parte, che ti porta a casa mentre tu puoi pensare in pace. Bref, ho inviato la domanda il giorno della scadenza. Poi sono partita per l'Andalusia e Lucìa, la mia amica conosciuta durante il suo erasmus a Trieste. L'ultima sera, guardando l'equivalente spagnolo di Italia's Got Talent la mia coinquilina Giorgia detta Giorgio, l'unica a sapere di questa cosa, mi scrive che i vincitori della borsa sono stati pubblicati in anticipo. Mi invia il link dicendo di andarci subito e aggiungendo quelle che a me son sembrate un milione di 'o', una per ogni sorriso che lei mi regalava a farmi capire che sì, ce l'avevo fatta. Parigi, 9 mesi, solo due borse e una è mia.
Decido di festeggiare ascoltando qualcosa, ma tutto quel che mi viene in mente è "sei nei caffè di Parigi o sei sul porto di Amsterdam" quindi metto i Baustelle mentre piango nell'abbraccio profumato di bebè al limone. Poi faccio una telefonata, poi penso a quando lo dirò a lui e la gioia che mi avevano trasmesso gli amici si trasforma di nuovo in disperazione. Siamo a Toledo, usciamo di casa, troviamo uno di quei mini alimentari indiani (o cinesi?) aperti, prendiamo cibo spazzatura e birre. Risaliamo in casa, apriamo tutto e finiamo tutto parlando di come sarà, di non preoccuparmi, che all'inizio sarà difficile ma poi sarà bellissimo.
La conferma della borsa erasmus doveva essere inviata entro le 13 di un giorno di sole padovano. Alle 12.50 mi sono messa davanti al computer e ho cercato di capire che fare. Avevo un cuore enorme che occupava tutto lo spazio dentro al petto e fino alla gola, e pompava sangue a gogò e faceva un rumore tremendo. tu-tum tu-tum. Alle 12.56 decido di dire sì, al massimo mi invento che mi è morto qualcuno e rinuncio. Meglio mentire che trovarmi tra qualche mese con le mani mangiate da "se quella volta". Alle 12.58 la mia conferma non parte ancora, clicco invio su invio e niente. Alle 13.00 penso che è tutto perso, che è il destino. Alle 13.01 mi arriva la conferma avvenuta e un po' mi sento sollevata e felice, un po' mi sento triste e mh, vediamo.
Forse il giorno stesso, forse il giorno dopo, torno a casa da Padova. Chiedo a lui di vederci per un bicchiere di vino dopocena. So già che ci ricorderemo quella sera per un po' di tempo, quindi cerco qualcosa che si stacchi dal nostro circolo di bar. C'è un posto bellissimo, con pochi tavoli all'aperto su una stradina che diventa sempre un po' più buia in discesa. Non so perché non ci andiamo mai, è davvero bello. Lo porto lì, gli dico che è una sera speciale, che pago io, che ci prendiamo del vino buono e non badiamo al prezzo. E' metà aprile, c'è quel piccolo vento caldo e profumato d'estate che arriva, ci sono i colori più belli della città e le ombre dei vicoli che si aprono dal corso. In certe sere così sembra di sentire l'odore di mare e di sicuro si sente l'odore di felicità. Ordiniamo, beviamo, gli mostro le foto della mia vacanza spagnola. Capisce che sto prendendo tempo per qualcosa di grande, ho anche lasciato due sigarette nel pacchetto per fumarle dopo. Mi chiede cosa c'è, cos'è che non riesco a dire. Io dico che andrò a vivere a Parigi, lui risponde con occhi lucidi e il sorriso di chi è felice per me ma è anche triste per quello che ci aspetterà. Brindiamo, fumiamo, ci abbracciamo. (ètuttook)
catene e gioie fragili
Comincerò dicendo che sono nata nel segno della Bilancia: perciò nel mio carattere equilibrio e squilibrio correggono a vicenda i loro eccessi. Sono nata in una città bellissima ma nessuno sa dov'è e chi ci vive spesso pensa di essere nel posto più brutto del mondo. Sono cresciuta in un paese che rimane bellissimo nella memoria di me bambina e nei racconti di mio nonno quando ancora era vivo. Ho vissuto un anno a Milano, dove grigio, tempi velocissimi e passeggiate a denti aperti mi hanno segnato un po' l'esistenza. Poi due anni a Trieste, dove l'azzurro, il seppia e il bianco mi hanno fatta innamorare di questa p'tit Napoli aristocratica con mani troppo grandi per regalare un fiore. Poi un anno e mezzo a Padova, dove il giallo rosa del tramonto e giallo arancione dello spritz si sono infilati nel mio cuore senza che me ne accorgessi, o che lo volessi. E ora un anno a Parigi.
Sono arrivata il 10 settembre, partendo da Venezia che faceva freschetto il mattino e arrivando in una città bollente e sudaticcia nell'ora di pranzo. Mi ci son voluti venti giorni per trovare una casa, vivendo nel frattempo a casa di amici, amici di amici, futuri amici. Il primo ottobre ho finalmente salito i centotre scalini che portano al quinto piano della scala B (che tutti nel palazzo dicono stia per Bohémien) e ho diretto le mie (mie!) chiavi verso gauche, la porte juste en face.
Da quel giorno vivo la maggior parte del mio tempo in quei diecimetriquadri che si chiamano studiò. Ogni tanto esco, ma soprattutto guardo fuori dalla finestra il mondo felice della signora ricca che vive nel mega appartamento di fronte al mio.
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